control

di Anton Corbijn.

articolo di marta freddio.

Un film sulla vita di Ian Curtis anche se la storia dei Joy Division la conosciamo più o meno tutti. Eppure il film inizia bene, va per gradi, dapprima è un ragazzino eccentrico che si trucca in camera sua, segue una sfacciata dichiarazione-proposta di matrimonio e da lì in poi assistiamo lentamente allo srotolarsi della vita di un ventenne dietro ad un microfono, un ragazzo ancora del tutto inconsapevole di quello che sarebbe diventato di lì a poco.
Va detto che questa impalpabile lentezza narrativa è tutto un bluff, è la naturale conseguenza di un bianco e nero sempre elegante, che ad ogni inquadratura regala un’incredibile intensità, perché poi la storia t’investe, ti prende per mano e tu non te ne accorgi, va avanti senza enormi scossoni, per immagini più che per nessi logici. Il film mostra infatti in maniera lineare e composta gli episodi chiave della vita del giovane Curtis, ma lo fa con una tale ricchezza di particolari e con una precisa attenzione al dettaglio da bombardare la mente dello spettatore con continui stimoli ed emozioni sottocutanee.
Siamo davanti a volti, corpi, musica e stati d’animo ma anche e soprattutto a tanti silenzi, interi momenti in cui i pensieri non si traducono in parole, ma vengono congelati dentro allo sguardo inquieto del protagonista e ai movimenti frenetici di un corpo fragile affetto da epilessia, una malattia che indubbiamente amplificò la sensazione di perdita di controllo sul reale e che testimoniò a suo modo l’urgenza di Ian Curtis di tirare fuori i suoi turbamenti attraverso la musica.
Arrivano insieme la fama e la tragedia e nemmeno l’amore riuscirà a salvarlo dal suo malessere: un matrimonio precoce che non funziona, la consapevolezza che nemmeno la figlia riesce a legarlo alla famiglia e i logoranti sensi di colpa per un nuovo amore di cui non riesce a fare a meno ma che tuttavia non sa vivere con serenità.
E così emotivamente sovraccarico, sfinito e spaventato, non resisterà alla tentazione di porre fine a tutti quanti i suoi tormenti.
Da qui nasce il mito, perché l’orrore della morte scompare dietro al genio, dietro al talento, dietro all’arte, dietro alla fragilità con cui Ian Curtis ha affermato la propria umanità.
E le emozioni, attutite dal livore del bianco e nero, s’infiltrano a tradimento, si infilano di taglio attraverso coraggiose inquadrature, penso ad esempio agli attimi prima della morte, Ian si lava il viso nel lavandino della cucina, si solleva, guarda in alto a sinistra, dritto in camera, pochi secondi di silenzio e tu non puoi fare a meno di domandarti a cosa stia pensando.
C’è qualcosa che percorre l’atmosfera di questo film che sai di dover capire e ricordare e non ha importanza l’angolazione da cui ti metti a sezionare il film, a riflettere sulla vicenda, sui primi piani, perché il regista non ti sta chiedendo di capire, ti sta semplicemente raccontando la vita di un uomo, di un ventitreenne che con soli due album ha consegnato i Joy Division alla storia della musica.
E nessuno meglio di Anton Corbijn, con l’aiuto di un bravissimo e somigliantissimo Sam Riley nel ruolo del protagonista, avrebbe potuto raccontare così bene questa storia; fotografo prima che regista Corbijn ha mostrato la sofferenza di un ragazzo attraverso magnifiche fotografie che fanno della semplicità il più alto valore.

Un Commento

  1. e vabbè che gli vuoi dire? Bellissimo!

    Un saluto da Lordbad
    Vongole & Merluzzi

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